Wednesday, September 23, 2015

Accento italiano

Potrei vivere in Inghilterra per altri cinque, dieci, venti anni, un dettaglio resterà comunque inalterato: l'accento italiano.
Tutto nacque il giorno in cui notai che tutti gli italiani che cercavano di imparare la lingua inglese imitandone l'accento suonavano ridicoli e pretenziosi. Sopratutto se si trattava di principianti.
Decisi di non voler divenire oggetto di scherno.
Avrei imparato i vocaboli e la pronuncia della lingua, ma avrei mantenuto l'accento italiano.

Anni dopo diverse vacanze studio in territorio anglosassone mi portarono a rinforzare la decisione.
Gli abitanti del luogo, sopratutto di sesso maschile, adoravano l'accento italiano: un successone.

Eccomi qui, vent'anni dopo.
Residente in terra d'Albione da cinque anni e giornalmente sottoposta a domande sulla mia provenienza non appena apro bocca.

Soltanto che quando parlo velocemente l'accento è così pronunciato che a volte gli autoctoni mi chiedono di ripetere le parole in inglese. 
Parlo velocemente perché penso sempre di annoiare la gente.
Inoltre, come in italiano, non finisco le parole e le frasi.

Recentemente ho avuto una rivelazione: si trattava di una mia paranoia. 
Gli inglesi ripetono le stesse cose all'infinito, sopratutto dopo un paio di bicchieri, e le parole che mi escono di bocca sono, se non interessanti, per lo meno divertenti.

Ecco, il segreto sta nel rallentare quando parlo, nel pesare ogni parola, respirare per bene.
Niente a che fare con l'accento.
E poi mi sembra di perdere un pezzo di identità.

Quindi non mi smuovo, mi tengo l'accento.



Tuesday, September 22, 2015

"Ho portato sulle spalle mio padre", Armando Minuz


 


"Ho portato sulle spalle mio padre" è un'opera di Armando Minuz, un mio ex collega.
     Conoscendolo un poco mi aspettavo un romanzo coinvolgente, astuto, ben scritto e minuziosamente architettato. Si è rivelato meglio di quello che mi ero prefigurata.

     Una storia che esplora il rapporto tra padre e figlio. Una saga mitologica moderna.
     È un racconto molto maschile: si narra di temerari cacciatori, lupi di montagna di poche parole, sempre a contatto con la natura, che incapaci di esprimere forti sentimenti a parole a volte si sfogano a pugni. La presenza femminile è solo abbozzata, anche se avvolge le figure maschili come una nebbia, una grande madre che aleggia nella aria, nel bosco, quasi divinizzata.
    Ho scritto ad Armando chiedendogli come gli era venuta l'ispirazione e cosa pensava di alcune recensioni. Era da tanto che voleva scrivere un libro, mi ha risposto, e la figura di Leone, montanaro e cacciatore che intaglia il legno, gli è apparsa chiaramente. Tutto il resto lo ha costruito intorno a quell'immagine. Con risultati entusiasmanti, aggiungo io.
     Ognuno legge ed interpreta i libri modo proprio. Armando mi fa notare che tra presentazioni, incontri e critiche è stato entusiasmante ricevere nuovi punti di vista dai lettori.
     Pare che il secondo romanzo sia quasi pronto.

  "Quella notte lo visitò in sogno suo padre..."
     "Suo padre era nella grotta con lui, in piedi e immobile, e teneva in mano una torcia splendente di   luce azzurra, come un fuoco fatuo, in grado però di riscaldare quel cunicolo freddo e umido..."
     "Poi sedettero intorno al fuoco. Consci di esistere in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio parlarono a lungo con le voci appena incrinate dalla nostalgia, guardandosi negli occhi e talvolta ammirando il fuoco azzurro incandescente, restando in silenzio e soltanto osservando la fiamma..."
     "Parlarono finché la luce dell'alba non irruppe con violenza inattesa nel cunicolo. Allora Lando sollevò gli occhi dal fuoco in direzione del padre e vide che davanti a lui non c'era nessuno..."
     "Per la prima volta dopo anni ebbe paura, credette davvero che le pietre verdi del camposanto contenessero una maledizione. Non si sarebbe dovuto addormentare in quel luogo, si disse ad alta voce, avvertendo un dolore atavico e primitivo nelle parole che scalfivano il silenzio irreale della cava.
      Confuso, sentendosi ancora stanchissimo, rimase a fissare per un tempo indefinibile quell'alba sempre più bianca che proveniva dall'uscita rabbrividendo.
     "Padre", disse Lando. E ripetè quella parola più volte, guardando la roccia davanti a sé.
     Gli sembrò che il mondo accelerasse la propria rotazione, vide la luce divenire abbagliante in pochi minuti e fu giorno fatto.
     Continuò a parlare a sé stesso, incapace di ritrovarsi. Perse il senso del tempo e dello spazio e si mosse libero, inerpicandosi lungo gli assiomi, le teorie, le congetture figlie di quella notte, notte madre di visioni e lemuri, discendendo poi lungo i pendii e le ripide valli dell'incoerenza, sentendo il
panico montare come marea e attanagliargli piano lo stomaco come una morsa morbida, poi sempre più dura e serrata, soffocante. Parlò a sé stesso e al fantasma assente di suo padre e al fuoco e ai graffiti che egli stesso aveva disegnato decenni, forse secoli fa, passandosi le mani agitate e callose sul cranio, tappandosi gli occhi con i palmi aperti e scorgendo smaglianti galassie in rotazione in quel buio artificiale e antiche rovine in cui riposavano tutti i morti del mondo. Vide le fredde case dei morti, che sempre attendono il vivo, e dunque pregò e poi bestemmiò Dio e gli uomini, urlando o pregando o salmodiando in un sospiro, finché la luce dell'ingresso si oscurò. Lando levò lo sguardo, vide che nel chiarore abbacinante del giorno si stagliava una figura alta e scura.
     La figura si fece avanti e Lando sbarrò gli occhi, incredulo. Sulla soglia c'era suo padre, giovane come lo aveva sognato quella notte. La schiena dritta, indomita, e la carabina in spalla lo facevano sembrare un giovane partigiano risorto.
     "Padre", disse Lando cercando di alzarsi...
     "Padre riaccendi il fuoco", disse .
     "Papà, andiamo a casa, ti prego. Ti riporto a casa, se me lo lasci fare.".
     Leone vide che il padre si era morso le labbra a sangue, mentre sul viso e sul cranio e sulle braccia aveva la terra e il verde della pietra, e graffi e tagli e lividi.
     Lando si alzò con fatica e affidò meccanicamente le mani trepidanti a quelle del figlio. Leone prese quelle mani e se le portò intorno al collo. Sentì finalmente ciò che desiderava da tempo e di cui conservava solo un debole ricordo, si abbandonò grato in quel l'abbraccio che suo padre gli regalava. Poi sentì suo padre chiamarlo con il nome di suo nonno."


Tuesday, September 01, 2015

I bambini annegati



Ho postato su Facebook le foto dei bambini annegati sulle rive del Mediterraneo e non sono convinta di aver fatto la cosa giusta.
Invidio quelli che hanno preso una posizione e l'hanno mantenuta.

Il 28 agosto, venerdì sera, sono tornata da una cena con mio marito, era il nostro anniversario, cinque anni di matrimonio.
Stavo allattando il mio bambino di 17 mesi e al contempo stavo spiando le vite degli altri su Facebook come spesso faccio, stavo quasi per postare una foto del nostro matrimonio per annotare l'anniversario, come fanno in molti.
Ad un tratto delle immagini terremoto hanno scosso il villaggio sereno di Facebook, fatto di foto di tramonti, selfie vacanziere e bimbi che crescono (anche le mie intendiamoci), ogni tanto succede, ma questa volta mi è arrivato un pugno.
Bambini annegati, spiaggiati, mezzi svestiti, lavati dal mare, morti. Morti annegati.
I migranti. Quelli di cui sentiamo parlare tutti i giorni.

Questa volta foto. Di cadaveri. Di bambini.

Mi sono trovata a dover decidere, come molti, se condividere quelle foto o meno.
Una scelta che di solito spetta alle redazioni. Pare che solo il Fatto le abbia pubblicate.
Le ho condivise.
Hanno visitato i miei incubi.

Perchè l'ho fatto?
Perché ho sentito la gravità e l'urgenza di un fatto tremendo irrisolto dai governi.
Perché sono nauseata dai commenti razzisti e dalle notizie populiste.

La metà dei miei amici sono inglesi, abito in Inghilterra, per cui il giorno seguente sono arrivati dei commenti molto cortesi e velatamente diretti a me. Un paio di persone soltanto.
Dicevano di non voler vedere quelle foto, di essere al corrente degli eventi e di non voler vedere quelle foto di morte.
Ho cancellato le foto.

Poi me ne sono pentita.
Il voyeurismo della morte esiste, esiste perché non sappiamo gestire il nostro rapporto con la morte.
Il problema è quello che sta accadendo, non sono le foto.
Le ho postate perché ho pensato che qualcuno che scrive commenti di una superficialità preoccupante o che insulta i migranti come se fossero una unica persona nemica potesse fermarsi a pensare.

Poi ho pensato ancora che forse ho urtato la sensibilità di chi al problema pensa comunque e lasciato comunque indifferenti quelli che pensano che i rifugiati siano soltanto dei delinquenti che arrivano in Italia per scroccare delle notti in albergo e andare a svaligiare un paio di appartamenti.
Per questo le ho cancellate.

Non avrei mai postato delle foto di un evento isolato.
Queste però erano un urlo.

Le ho cancellate perché quei volti mi perseguitavano. Perché ho pensato che i loro genitori siano morti o morti viventi senza la possibilità di scegliere se far pubblicare le foto dei loro bambini o meno.
E continuo ad invidiare chi ha le idee chiare, chi non vede in tutto questo una relatività della morale che ci lascia impotenti.