Wednesday, March 29, 2017

Case del passato


Quand'ero bambina, i pomeriggi erano interminabili.
Quando si faceva buio ed i miei genitori non erano ancora rientrati da lavoro, nell'attesa, mia nonna Bina si sedeva sul divano di velluto giallo-marrone ed io appoggiavo la testa sul suo grembiule a fiori.
Stavamo lì, sospese nel tempo. Lei mi raccontava delle storie che univano il suo passato al mio presente, la leggenda alla storia, l'assurdo alla quotidianità.
Così alleviava l'attesa.
Ancora oggi le storie mi alleviano l'attesa.
Di cosa non so.

Mi raccontava del suo passato. Di quando prima di sposarsi alloggiava e lavorava in un ristorante- albergo che si affacciava sul Po, fuori Valenza: il "Barachin del Moro".
Ne parlava spesso come di un periodo mitologico della sua vita,  nonostante si trattasse di un lavoro umile e di sfruttamento. Descriveva le sue datrici di lavoro come delle benefattrici soltanto perché le davano un tetto, le regalavano vestiti usati e a Natale pezzi di stoffa per farsene dei nuovi.
Ogni giorno si svegliava prima dell'alba ed iniziava strofinando macchie dalle tovaglie usando la cenere del camino e concludeva la giornata la sera tardi, spreparando gli ultimi tavoli degli avventori barcollanti e mettendo a mollo stoviglie e tovaglie.
Lì conobbe il futuro marito, il nonno Remo, che non ho mai conosciuto.
Pare che anche lui fosse un avventore barcollante del fine settimana.

C'era la storia del gigante.
A quanto pare un gigante che lavorava al circo si presentò un giorno al Barachin del Moro e prenotò una stanza per un paio di notti. A quanto pare era incredibilmente alto, una rarità anche per il mondo del circo, un caso da Guinness dei primati.
A quanto pare lo condussero in una stanza, ma presto mia nonna ed un'atra furono chiamate in soccorso: il gigante non riusciva a riposare perché il letto era troppo corto.
Così la nonna dovette aggiungere non una, ma ben due sedie in fondo al letto, ed una coperta, così il gigante riuscì a stendere le sue lunghissime gambe.

Poi c'era quella del palombaro con la labirintite.
A quanto pare tirarono fuori dal Po un palombaro in pericolo: non riusciva più a risalire dal fondo del fiume a causa di un attacco di labirintite.

C'era poi una vecchia signora che trovarono morta, con la faccia mangiata dai topi.
Questo accadde nel quartiere nel quale abitava, quando era piccola.
Chissà da dove giunge questa mia fobia dei topi...
Che storia graziosa.

C'era poi la classica leggenda metropolitana: quella di un carro, o forse una macchina, che nella nebbia di novembre diede un passaggio ad una ragazza trovata sul ciglio della strada.
Una ragazza con una vestito lungo, bianco, pallida e disorientata.
Il signore del carro seguì le indicazioni della ragazza e la lasciò nella nebbia.
Soltanto il giorno dopo ripercorse la strada mentalmente e capì che l'aveva lasciata davanti al cimitero.
Venne poi a sapere che la ragazza era morta.
Un classico.

C'era poi quella della famiglia di gatti microscopici che viveva sotto terra, in un buco.
Questa in realtà se la ricorda mia madre.

Ora questo rimane della nonna Bina: le sue storie.
Le racconto in versione meno terrorizzante anche al mio bimbo, che a sua volta ricorderà alcuni particolari modificati. O nulla.
E la memoria sbiadisce.

Non mi raccontava mia nonna della guerra.
Nè della sua bambina di tre anni che le morì tra le braccia.
Ma certe cose anche se non sono raccontate traspirano.

Nella sua casa dove il tempo era scandito dal tic tac di un vecchio orologio e dal crepitio della stufa a gas le storie erano scritte sui muri. Si giocava a carte e mi faceva sempre vincere, giocavo al negozio di verdure con bilancia e pomodori veri, attaccavamo figurine e preparavamo i gnocchi.

Non le storie in sė ma il significato distillato viene assorbito per osmosi quando si passa così tanto tempo insieme.
Ed io con mia nonna Bina di tempo ne ho passato.