Tuesday, September 22, 2015

"Ho portato sulle spalle mio padre", Armando Minuz


 


"Ho portato sulle spalle mio padre" è un'opera di Armando Minuz, un mio ex collega.
     Conoscendolo un poco mi aspettavo un romanzo coinvolgente, astuto, ben scritto e minuziosamente architettato. Si è rivelato meglio di quello che mi ero prefigurata.

     Una storia che esplora il rapporto tra padre e figlio. Una saga mitologica moderna.
     È un racconto molto maschile: si narra di temerari cacciatori, lupi di montagna di poche parole, sempre a contatto con la natura, che incapaci di esprimere forti sentimenti a parole a volte si sfogano a pugni. La presenza femminile è solo abbozzata, anche se avvolge le figure maschili come una nebbia, una grande madre che aleggia nella aria, nel bosco, quasi divinizzata.
    Ho scritto ad Armando chiedendogli come gli era venuta l'ispirazione e cosa pensava di alcune recensioni. Era da tanto che voleva scrivere un libro, mi ha risposto, e la figura di Leone, montanaro e cacciatore che intaglia il legno, gli è apparsa chiaramente. Tutto il resto lo ha costruito intorno a quell'immagine. Con risultati entusiasmanti, aggiungo io.
     Ognuno legge ed interpreta i libri modo proprio. Armando mi fa notare che tra presentazioni, incontri e critiche è stato entusiasmante ricevere nuovi punti di vista dai lettori.
     Pare che il secondo romanzo sia quasi pronto.

  "Quella notte lo visitò in sogno suo padre..."
     "Suo padre era nella grotta con lui, in piedi e immobile, e teneva in mano una torcia splendente di   luce azzurra, come un fuoco fatuo, in grado però di riscaldare quel cunicolo freddo e umido..."
     "Poi sedettero intorno al fuoco. Consci di esistere in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio parlarono a lungo con le voci appena incrinate dalla nostalgia, guardandosi negli occhi e talvolta ammirando il fuoco azzurro incandescente, restando in silenzio e soltanto osservando la fiamma..."
     "Parlarono finché la luce dell'alba non irruppe con violenza inattesa nel cunicolo. Allora Lando sollevò gli occhi dal fuoco in direzione del padre e vide che davanti a lui non c'era nessuno..."
     "Per la prima volta dopo anni ebbe paura, credette davvero che le pietre verdi del camposanto contenessero una maledizione. Non si sarebbe dovuto addormentare in quel luogo, si disse ad alta voce, avvertendo un dolore atavico e primitivo nelle parole che scalfivano il silenzio irreale della cava.
      Confuso, sentendosi ancora stanchissimo, rimase a fissare per un tempo indefinibile quell'alba sempre più bianca che proveniva dall'uscita rabbrividendo.
     "Padre", disse Lando. E ripetè quella parola più volte, guardando la roccia davanti a sé.
     Gli sembrò che il mondo accelerasse la propria rotazione, vide la luce divenire abbagliante in pochi minuti e fu giorno fatto.
     Continuò a parlare a sé stesso, incapace di ritrovarsi. Perse il senso del tempo e dello spazio e si mosse libero, inerpicandosi lungo gli assiomi, le teorie, le congetture figlie di quella notte, notte madre di visioni e lemuri, discendendo poi lungo i pendii e le ripide valli dell'incoerenza, sentendo il
panico montare come marea e attanagliargli piano lo stomaco come una morsa morbida, poi sempre più dura e serrata, soffocante. Parlò a sé stesso e al fantasma assente di suo padre e al fuoco e ai graffiti che egli stesso aveva disegnato decenni, forse secoli fa, passandosi le mani agitate e callose sul cranio, tappandosi gli occhi con i palmi aperti e scorgendo smaglianti galassie in rotazione in quel buio artificiale e antiche rovine in cui riposavano tutti i morti del mondo. Vide le fredde case dei morti, che sempre attendono il vivo, e dunque pregò e poi bestemmiò Dio e gli uomini, urlando o pregando o salmodiando in un sospiro, finché la luce dell'ingresso si oscurò. Lando levò lo sguardo, vide che nel chiarore abbacinante del giorno si stagliava una figura alta e scura.
     La figura si fece avanti e Lando sbarrò gli occhi, incredulo. Sulla soglia c'era suo padre, giovane come lo aveva sognato quella notte. La schiena dritta, indomita, e la carabina in spalla lo facevano sembrare un giovane partigiano risorto.
     "Padre", disse Lando cercando di alzarsi...
     "Padre riaccendi il fuoco", disse .
     "Papà, andiamo a casa, ti prego. Ti riporto a casa, se me lo lasci fare.".
     Leone vide che il padre si era morso le labbra a sangue, mentre sul viso e sul cranio e sulle braccia aveva la terra e il verde della pietra, e graffi e tagli e lividi.
     Lando si alzò con fatica e affidò meccanicamente le mani trepidanti a quelle del figlio. Leone prese quelle mani e se le portò intorno al collo. Sentì finalmente ciò che desiderava da tempo e di cui conservava solo un debole ricordo, si abbandonò grato in quel l'abbraccio che suo padre gli regalava. Poi sentì suo padre chiamarlo con il nome di suo nonno."


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